Avevo quattro anni e mezzo quando mia madre si ammalò gravemente, fu ricoverata in ospedale e non la rividi per un lungo periodo.
Mio padre lavorava fino a tardi e non poteva prendersi cura di me.
Mi trasferii a casa della nonna paterna, una donna arida come la terra nella quale affondavano le sue radici, che si occupava appena di me, incapace di gesti di affetto e comprensione. Sperimentai un senso di profonda solitudine e abbandono, e mi attaccai alla vita come potevo: trascorrevo il tempo inventando giochi e lavoretti, imparai da sola a leggere e scrivere per poter comunicare con la mamma e cercare di far fronte allo sconforto e all’infinita tediosa lentezza dei miei giorni vuoti.
Nonostante fossi piccina, ho ricordi molto nitidi di quel triste anno trascorso lontano dalla mia casa e dai miei genitori, ma solo intorno ai trent’anni, affrontando un percorso di evoluzione personale, affiorò alla mia memoria un’immagine che apparteneva a quell’epoca e che prima d’ora non avevo mai ricordato. Un unico fotogramma: nella casa della nonna, sul divano, io con la camicina da notte sollevata e un uomo con le mani su di me, che dice qualcosa tipo “Adesso ti faccio vedere io come si fa…”.
È occorso un lungo cammino di crescita e consapevolezza per trasformare quel fermo immagine in una sequenza di fotogrammi che colmassero lo sconcerto per quella memoria così accuratamente celata per decenni, perché potessi riappropriarmi, pur dolorosamente, di un pezzo di esistenza dalla quale io stessa mi ero protetta in maniera tanto accurata. Col tempo si sono aggiunti altri fotogrammi, e ora il ricordo è più dettagliato e comprensibile.
Con la nonna viveva uno zio, presenza nel complesso insignificante, fino a che non cominciò a prestarmi le sue attenzioni particolari: un giorno mi sorprese in un anfratto della casa mentre, curiosa del mio corpo, frugavo nelle mie mutandine. Mi rivolse un sorrisetto beffardo e uno sguardo che era una promessa. La sera me lo trovavo addosso dove capitava, e qualche volta si intrufolava nel mio letto e si strusciava contro di me. La mia difesa era la paralisi, l’anestesia che il mio corpo attivava per non sentire il dolore e lo schifo.
Avevo cinque anni.
Ma sono diventata grande, nonostante tutto.
Perché lo racconto ora?
Perché so quante donne portino i segni di abusi e violenze, e quanto questi siano taciuti. Io stessa li ho nascosti alla mia consapevolezza per così tanto tempo, senza che trapelasse nulla, salvo una sofferenza di vivere che non ha mai trovato forma, fino a che non si è accesa una luce nelle profondità della mia memoria. Io quella luce non la vorrei mai e poi mai spegnere. Ricordare mi ha salvato la vita, trovare il modo di elaborare il senso di colpa, di sporcizia e riuscire a portare il mio dolore mi ha fatta rinascere. Nonostante ciò, avverto ancora la vergogna e spesso nella mia mente si insinua il dubbio che quei fatti non siano realmente accaduti, che siano frutto della mia immaginazione. Quindi uscire dalla mia zona di comfort e parlarne è uno sforzo che sento di dover compiere per confermare a me stessa che quella bambina abusata è diventata una donna degna che merita di esistere, di amare ed essere amata.
Racconto anonimo.
#nonseisola